LUOGHI MISTERIOSI DEL MONDO: GLI OSPEDALI PSICHIATRICI D’ITALIA
Molti di voi diranno che i fantasmi non esistono. Ma è possibile che molti di voi cambieranno idea dopo aver conosciuto non le leggende, ma cosa è realmente accaduto in questi manicomi. Forse questo è più spaventoso degli spiriti dei defunti che dicono trovarsi lì.
I MANICOMI DELLA FOLLIA
Non è difficile intuire gli orrori subiti dalle migliaia di persone ingiustamente rinchiuse nei manicomi italiani. Vite umiliate ed ignorate da una società ipocrita che si vanta anche sfacciatamente del proprio livello di umanità.
Le intenzioni e gli interessi in questi manicomi erano ben lontani dal fornire un’esistenza migliore alle persone che vi ci cadevano dentro. Le terapie che chiamavano “alternative” , che offrivano per curare, ad esempio, rabbia, isteria o persino la masturbazione, altro che bicchieri di acqua minerale, sessioni di ginnastica e bagni solari, questi offrivano altre terapie meno innocenti, come farmaci, maltrattamenti e persino torture difficili da immaginare, se non per menti più disturbate di quelle degli stessi malati di mente.
Difficile elencare le innumerevoli “terapie” e trattamenti con cui affermavano di alleviare e persino curare i disturbi psichici di cui soffrivano questi detenuti. I trattamenti erano più mirati a contenere e moderare i loro comportamenti considerati “inappropriati” , e su cui poggiavano le scuse per abusare e sperimentare su di essi. Inoltre, bisogna considerare che nella maggior parte dei casi questi disturbi mentali erano inesistenti ed erano semplici scuse per “sbarazzarsi” di qualche persona scomoda.
Dopo decenni è stato ammesso che ci sono stati “errori di ingresso”, diagnosi errate e negligenza, ma ci è voluto ancora più tempo per ammettere che la sperimentazione clinica èstata condotta attraverso tortura, abuso fisico e psicologico e sfruttamento lavorativo.
Di seguito specificheremo alcuni esempi, non per indulgere nel macabro più di quello che è già una tremenda realtà, ma per tenere conto di quanto lontano possa arrivare il limite dell’assurdità umana, e della vanagloria, perché anche questo era oggetto di questi esperimenti realizzati “per il bene della scienza”.
Alcuni di coloro che sono sopravvissuti a quell’atroce esperienza sono stati in grado di descrivere come hanno vissuto quei momenti e le sensazioni che hanno causato l’applicazione di queste terapie su di loro. Secondo quanto hanno raccontato, in questo caso mentre venivano somministrate loro iniezioni di trementina, venivano, percossi, denigrati e legati inmodo che non si muovessero.
“Ci provocavano dolori atroci per molti giorni. Gli ascessi erano terribili. Non muovevi nemmeno le ciglia, perché così faceva meno male. Prima che gli effetti di un’iniezione iniziassero a svanire, te ne davano un’altra “.
Descrissero con orrore l’elettroshock , che lo percepivano come una punizione sistematica per controllarli e dominarli.
“ Quando dicevano che ti stavi comportando male e che non facevi quello che volevano, venivano a cercarti e ti portavano in una stanza. Là ti legavano e ti davano la scossa. Sentivi un dolore molto forte quando l’elettricità penetrava dentro nel corpo. Quando ti applicavano l’elettroshock per alcuni giorni, ti sentivi come un morto che cammina. Non potevi nemmeno muoverti. “
Tutte le azioni nella pratica della medicina dovrebbero essere presiedute da un principio di giustizia , di beneficenza e di non malignità. Ovviamente questo è stato dimenticato. Ecco perché è importante ricordare gli errori. In modo che nel presente e nel futuro la medicina si adoperi per fornire cure migliori basate su prove scientifiche radicate su principi bioetici e codici morali ingrado di rispettare i diritti umani.
Il medico veniva richiesto solo dopo chela persona fosse stata etichettata come “pazza” e quando il comportamento aveva reso problematico il livello sociale. In effetti, non c’era distinzione tra la classificazione di “matto” e “criminale”, “vagabondo” o “ignobile”.
Dopo aver appreso i fatti veri, le storie raccapriccianti di fantasmi raccontate su alcuni manicomi italiani sembrano leggere al confronto. Senza voler aggiungere altro dramma, in alcuni casi la realtà ha indubbiamente superato l’invenzione che alcuni pensano che queste storie possiedano.
In questi casi le storie hanno una base di verità che fa rizzare i capelli. E non tanto nel trovare l’immagine spettrale di una ragazza in camicia da notte che corre a piedi nudi attraverso uno dei corridoi in rovina di un manicomio, ma perché possiamo intravedere che cose terribili sono realmente accadute lì.
Ingiustizie, violazioni dei diritti, umiliazioni e torture che hanno causato tante sofferenze gratuite, assurde e totalmente inutili a migliaia di persone, e che forse è per questo che non vogliamo dimenticare.
La rappresentazione fisica di ciò che alcuni credono siano forze soprannaturali in questi luoghi, se non causata dall’energia psichica di entità provenienti dall’aldilà, rappresenta almeno in qualche modo la voce silenziata del defunto che subì quelle ripudiabili torture.
Un lato della storia italiana, forse meno conosciuto, ma che indubbiamente aggiunge un’altra assurda realtà della società sempre più sconcertante.
FENOMENI PARANORMALI NEI MANICOMI
Per molto tempo, i dubbi sull’esistenza o meno di fenomeni paranormali hanno messo la scienza in una sfida costante. Culture e credenze differenti sparse nel mondo continuano a mantenere viva questa peculiare componente psichica tanto incomprensibile quanto affascinante nelle tradizioni, nelle leggende e nei rituali.
Esistono prove documentate dell’esistenza di fenomeni paranormali sin dai tempi antichi. La scienza cerca di dare una spiegazione scientifica a questi fenomeni che vanno oltre la ben nota logica fisica, ma non vengono ignorati, poiché potremmo trovarci di fronte a fenomeni di cui non conosciamo la spiegazione per mancanza di conoscenza e tecnologia.
Infatti già nel 1882 a Londra era stata creata una società per la ricerca psichica, in cui si studiava in particolare l’ipnosi, tanto di moda a quei tempi. Successivamente dalla Conferenza Internazionale di Parapsicologia tenutasi a Utrecht nel 1953, molti paesi tra cui Germania, Olanda e Russia hanno mostrato interesse per quella che veniva chiamata “metafisica” e hanno creato associazioni e istituti di ricerca psichica, dove oggi si indagano per dare una spiegazione scientifica a fenomeni paranormali come la telecinesi e le esperienze suggestive dopo la morte.
Alcune testimonianze affermano di aver visto fantasmi aggirarsi tra le rovine delle stanze di alcuni manicomi italiani. Immagini evanescenti di persone stordite chefluttuano in qualche modo attraverso le pareti scomparendo in esse.
Certo, alcune droghe psichedeliche potrebbero provocare l’effetto di vedere allucinazioni, oltre alla suggestione che provoca l’isteria di massa, ma ci sono anche ipotesi scientifiche che ammettono una possibile veridicità in queste strane visioni.
Niente di più e niente di meno che la teoria della relatività di Eintein, lerelazioni spazio-temporali , la probabilità dell’esistenza di mondi paralleli ed il tanto gettonato “multiverso” e la sua interconnessione attraverso il piano attuale con un altro del passato, darebbero una spiegazione scientifica a questi fenomeni fantasmagorici. Secondo queste ipotesi sarebbero consentiti cambiamenti nella fisica.
STORIE DEL MANICOMIO
I FANTASMI DEL MANICOMIO MOMBELLO
Senza dubbio uno dei più controversi in Italia. Non solo perché la Commissione Europea dei Diritti Umani ha dichiarato e confermato che durante la sua attività erano state effettuate “terapie” considerate “contro la dignità ed i diritti umani”, ma anche perchè vi lavorò e collaborò il controverso dottore Ugo Cerlett, il padre dell’elettroshock.
Attualmente l’edificio è abbandonato, i resti delle sue rovine sono sparsi tra una vegetazione spezzata che sembra tentare con scarso successo di nascondere i resti di un passato ambiguo ed oscuro.
Negli anni successivi alla sua chiusura definitiva nel 1983, e dopo essere stata vandalizzata ed occupata dalle piante, è stata fortemente visitata da “cacciatori di fantasmi” attratti dalle storie raccapriccianti che vengono raccontate.
Alcune psicofonie registrate all’interno del manicomio hanno rivelato gli echi di un passato di sofferenza e dolore, suoni discordanti che sembravano pianti ed urla atroci.
Suoni eventualmente causati dalle interazioni di qualche dispositivo elettrico situato nelle vicinanze. Ma anche, secondo i credenti, questi segni potrebbero essere stati causati anche dalla presenza nell’ambiente di una forte carica psichica. Energia emessa dalle persone gravemente maltrattate ed abusate che vi hanno vissuto, le cui voci ed urla si ripetono nel tempo perché lì intrappolate tra le mura.
LA VITA ALL’INTERNO DEL SANATORIO MOMBELLO
Noto anche come Ospedale psichiatrico Giuseppe Antonini de Limbiate, fu inaugurato nel 1865, un anno dopo fu costruito intorno ad esso un muro inpietra di tre metri di altezza e quasi due km di perimetro (1.997 m.) Che circondava l’intero complesso, che non stava ad indicare che quello fosse un luogo sicuro dove si poteva essere sollevati da una presunta malattia mentale, ma piuttosto un luogo di isolamento ed emarginazione.
In realtà il Mombello era predisposto come sede distaccata del manicomio Senavra di Milano, per accogliere “con urgenza” i pazienti in eccedenza del Senavra, che era gremito di reclusi, di cui lo psichiatra Andrea Verga affermò ” è una vergogna nazionale “.
In generale, ad eccezione di alcuni mal calcolati, erano situati in luoghi geografici con un clima salubre . Alcuni di loro, infatti, inizialmente nascevano come ospedali per malattie croniche e di lunga durata, come la tubercolosi, dove l’aria benefica delle campagne contribuiva senza dubbio ad una migliore e più rapida guarigione.
Il Mombello, si trova nella regione Lombardia, in provincia di Monza e Brianza, in un comune chiamato Limbiate, oggi le sue rovine riposano nel silenzio. Echi di un passato burrascoso, che ci trasporta in una realtà passata in isolamento e sofferenza.
Il manicomio di Mombello è stato costruito sulle fondamenta della Villa Pusterla-Crivelli , costruzione medievale del 1754, del lontano XVIII secolo, che fu occupata da Napoleone nel 1797, all’interno di un imponente appezzamento di terreno di campi e colline che acquistò per proclamare una delle sue tante conquiste in Italia. Dopo diverse riforme e ampliamenti, la costruzione fu completata nel 1878, anno in cui fu ufficialmente inaugurata.
Inizialmente la chiesetta esistente erautilizzata anche per cerimonie religiose, poi nel 1935 fu costruita una nuova chiesa più grande, con maggiore capienza, quella di San Ambrosio in stile romantico, che soddisfaceva maggiormente le esigenze di spazio dovute al costante aumento dei pazienti.
Come abbiamo detto in precedenza in un altro articolo sugli ospedali psichiatrici italiani, alla fine del XIX secolo, la situazione di sovraffollamento e cattive condizioni all’interno dei manicomi portò alla creazione della Legge 36, che aveva lo scopo di correggere questa situazione. Così i nuovi amministratori del Mombello di fine ‘800 e primi del’ 900 introdussero nuove riforme nel rispetto delle nuove linee guida.
L’attività del Mombello iniziò con il trasferimento nel 1878 di oltre 1.100 reclusi dal Senavra. Da quel momento al Mombello andarono anche tutti i malati della provincia di Milano.
Il Mombello fingeva di essere lontano da quelle orribili critiche che si dicevano sugli altri manicomi, desiderava essere in prima linea, così a poco a poco tra quelle mura iniziò a svilupparsi un microcosmo, che fingeva di essere un esempio per tutti.
Nel 1820 iniziò ad essere introdotta una gestione della suddivisione degli spazi. I vari edifici e strutture del Mombello erano destinati a usi diversi. Alcuni dedicati esclusivamente al personale medico, come laboratori sperimentali, biblioteca medica , ecc. ed altri blocchi ad uso esclusivo dei degenti.
Oltre alle camere da letto, servizi igienici, sale da pranzo, panificio, lavanderia , ad uso comune, esistevano anche appositi locali dove si esercitava la cosiddetta “terapia occupazionale” o ergoterapia , nome scientifico con cui si amava chiamare le ore di lavoro non retribuito. Inizialmente erano costituite dalaboratori artigianali e di cucito, successivamente inseriti anche nel giardinaggio, altra occupazione molto promossa dalla direzione dell’istituto, che si svolgevano nelle grandi estensioni di frutteti e giardini che circondavano gli edifici.
I pazienti venivano divisi inbase al loro stato mentale in 4 gruppi, calmi, agitati, sporchi e laboriosi . Le “catene” che erano state a lungo utilizzate per immobilizzare i detenuti furono sostituite dalle cinghie e dalla famosa camicia di forza. Alle purghe, e ai farmaci barbiturici già noti, si aggiunse un’altra terapia, l’ idroterapia , con bagni e docce.
Un nuovo concetto introdusse la “cura morale” del paziente, sulla base del fatto che la follia non era altro che una distorsionedei sentimenti, della volontà e delle passioni. Quindi il lavoro del manicomio era quello di reindirizzare il paziente all’ordine della ragione, facendogli interiorizzare le regole sociali attraverso la cosiddetta “pedagogia della rieducazione”, che consisteva nell’avere la ragione impiantata attraverso l’imposizione di un sistema di ricompense e punizioni basato sul comportamento. La condizione necessaria per essere riammessi nella società era il rispetto della legge e delle regole sociali stabilite.
La figura del direttoreacquisì un’importanza fondamentale, rappresentò un’autorità indiscutibile e disciplinare, nulla veniva fatto senza il suo consenso. Voleva instillare nei detenuti un’idea di autorità e dissertazione. Il direttore voleva instillare nelle menti malate dei suoi detenuti, quell’educazione morale che avevano rifiutato, motivo per cui erano lì.
Tale era la necessità di sensibilizzare il mondo sulla prosperità e l’ ottimizzazione che stavano realizzando nel manicomio che nel 1880 fu creata un giornaleall’interno del manicomio, “La Gazzetta del Manicomio” , che fu pubblicata fino al 1905 .
Veniva stampato ogni due mesi e spedito gratuitamente in tutti i comuni milanesi. Poteva anche essere ricevuto comodamente a casa previo abbonamento. Nella rivista furono pubblicati vari articoli sulle attività svolte nel manicomio, e su come venivano gestite le diverse sezioni, come la panetteria , con la quale partecipò anche nel 1887 alla Mostra Internazionale degli Elettrodomestici da Forno.
Questa partecipazione evidenziò a livello internazionale l’impegno di Mombello per l’importanza dell’igiene e della pellagra (curiosamente una specialità di uno degli psichiatri che anni dopo sarebbe stato il direttore di Mombello), con ritratti realizzati dal vivo. Furono inoltre riportate regolarmente registrazioni di nuove ammissioni e furono segnalati anche i decessi avvenuti. Nel 1908 furono installati 4 padiglioni “aperti”, un’altra delle “terapie innovative” solo per reclusi pacifici, cioè senza muri, in una pineta vicino al manicomio, da 100 posti letto ciascuno.
Tra il 1911 e il 1931 il nuovo direttore Giuseppe Antonini (già accennato, che aveva fondato nel 1901, la celebre “Rivista Pellagrologica Italiana” pubblicata fino al 1923) raccolse e proseguì le riforme avviate dai precedenti direttori, realizzando ed introducendo nuove iniziative finalizzate a migliorare ed ottimizzare ulteriormente le condizioni generali del manicomio.
Spinto dall’entusiasmo della nuova promozione e dai privilegi previsti dalla Legge 36 del 1904, introdusse nuove idee ed apportò diverse modifiche alla gestione del manicomio con le quali fu altamente riconosciuto.
Ordinò la costruzione di un innovativo acquedotto che consentisse il trasporto dell’acqua direttamente nel recinto, e che rifornisse anche il comune di Limbiate. Realizzò anche una piccola ferrovia per il trasporto delle merci. E alla fine istituì un dipartimento separato per i bambini. Inoltre, introdusse varie attività ricreative, come la ginnastica, la musica per calmarsi, il teatro e la danza , costruendo anche un piccolo teatro all’interno del manicomio, chiamato il “teatro dei matti”.
Era così grande e sproporzionato l’interesse sull’innovazione e sull’igiene (anche dentale), la terapia occupazionale, la ricerca su nuove terapie di cure, ecc. della nuova direzione che anche i giornali locali riportarono il loro progresso terapeutico.
Un intero microcosmo, dove apparentemente non mancava nulla. Nonostante gli sforzi delle direzioni successive per far apparire quel luogo umano, tra le sue mura c’era un’altra realtà ignorata dalla crescente ipocrisia della società, quella di vite ingiustamente appartate.
Nel 1913 il Mombello era saturo di reclusi e circa 100 detenuti dovettero essere trasferiti a Villa Litta Modignani ad Affori, edificio di architettura barocca costruito nel 1687 da un marchese, che per anni fu adibito a residenza estiva della nobiltà milanese.
Così nel 1905 la città divenne temporaneamente un luogo di ricovero per i malati di mente che provenivano da altri manicomi. Dopo la Prima Guerra Mondiale, la manutenzione degli orti fu affidata agli alcolizzati dell’ormai definitivo manicomio. Per questo i bellissimi giardini ancora esistenti furono chiamati ” la cà d’i matt ” e “il giardino dei pazzi “. Durante la seconda guerra mondiale continuò ad ospitare profughi senzatetto, rimuovendo completamente dalle sue mura le ultime vestigia di sontuosità rimaste dal ‘700.
Durante la prima guerra mondiale due dei padiglioni “liberi” del Mombello furono usati come improvvisati ospedali diguerra per i militari. E cominciarono ad arrivare soldati colpiti dal trauma psicologico causato dagli orrori della guerra. In poco tempo il cosiddetto padiglione Veneto si riempì di menti squilibrate, ospitando oltre 250 soldati e profughi. Dei 635 soldati che il Mombello ospitò durante il periodo della guerra, solo 517 furono liberati, i restanti furono internati nel manicomio.
Le terapie per i soldati erano un po ‘diverse da quelle usate per gli altri detenuti, usavano metodi psicoterapeutici come il riposo , una dieta ricca di calorie per aumentare il peso corporeo, e la terapia della “libertà”, cioè l’uso della camicia di forza, comune al resto dei detenuti.
Ovviamente l’uso del Mombello come ospedale psichiatrico militare si diffuse anche durante altri conflitti, come la Battaglia di Caporetto, e la Seconda Guerra Mondiale.
La sovrappopolazione era un problema costante, che trovava sollievo solo quando alcuni interni venivano distribuiti in centri minori dei paesi vicini come Busto Arsizio e Parbiago, dove in quest’ultimo venivano trasferite le donne.
Negli anni a venire, gli ambigui “gabinetti scientifici” , come venivano chiamati, o laboratori di patologia e biologia del manicomio di Mombello, sollevarono molti interrogativi sui metodi poco ortodossi utilizzati all’interno della struttura. Il dipartimento di psicologia “sperimentale” all’interno del Mombello, guidato prima da Giuseppe Corberi e poi da Ugo Cerletti , quest’ultimo noto per aver inventato l’ elettroshock , era pieno di leggende e storie terribili su esperimenti e mutilazioni compiuti sotto tortura e sofferenza.
A causa dell’agglomerato di Mombello, all’inizio del ‘900 la provincia di Milano acquistò un terreno nel quartiere Affori, alle porte di Milano. Con l’intenzione di realizzare ex novo un edificio come estensionedel Mombello che era già straripante. Originariamente nel 1923 si chiamava “ Grande astanteria manicomiale di Affori ”, successivamente chiamata anche Villa Fiorita ed altri.
Per ragioni economiche, inizialmente decisero di lasciare la gestione del nuovo istituto ad una società privata. Così, chi poteva permettersi la rata mensile di 500 lire poteva internarvi e non al già saturo Mombello. Nasce così Villa Fiorita, con una capacità di 300 pazienti. Successivamente la provincia riprenderà la sua gestione.
Lo scandalo raggiunse l’estremo quando nel 1931 il Mombello insieme al controverso Istituto Psichiatrico , ovvero “Casa di cura per gli alienati e per i malati nervosi” di Affori , a Milano, al quale appunto collaborò il già citato Ugo Cerletti, stipulò un accordo dicreare un dipartimento “universitario” all’interno del Mombello , la cosiddetta “Clinica universitaria per malattie mentali” che operò fino al 1943, il cui “obiettivo era fornire pazienti” da studiare presso la Clinica per le malattie nervose e mentali di Milano fondata nel 1918 , il cui direttore era allora Carlo Besta.
Oggi esiste a Milano la Fondazione IRCCS Instituto Neurologico Carlo Besta, nulla a che vedere con quella di allora. Appartiene all’ERN, la rete di riferimento europea per le anomalie cranio-facciali e le condizioni otorinolaringoiatriche e le patologie neurologiche. Tratta tutti i tipi di malattie neurologiche dal Parkinson, l’epilessia, la sclerosi multipla, le malattie spinocerebrali, al linguaggio e alle difficoltà di apprendimento e all’autismo.
Cerletti lavorò all’interno dell’Istituto Mombello dal 1919 al 1924 come direttore del dipartimento di “psicologia sperimentale”, e negli anni successivi continuò la sua collaborazione dall’esterno. Successivamente, nel 1938, secondo i dati ufficiali, Cerletti utilizzò per la prima volta l’elettroshock in un essere umano (anno in cui collaborava ancora con l’ambulatorio di Mombello e Carlo Besta), utilizzando un rudimentale dispositivo creato per questo scopo che inventò insieme al suo assistente Lucio Bini. L’aveva già sperimentato in cani e altri animali.
Attraverso gli esperimenti condotti scoprì (secondo lui), una sostanza “rivitalizzante” , che chiamò agonina . Secondo lui, le ripetute convulsioni causate dalle scariche elettriche nel corpo dello sfortunato paziente, causavano la produzione nel cervello di questa sostanza, che era benefica secondo lui. La terapia elettro-convulsiva nella sua esperienza era più efficace nei pazienti con attacchi epilettici. Cerletti e Bini sono stati nominati per il Premio Nobel per questo.
Tra gli altri personaggi famigerati, nel 1935 Benito Albino Dalser , figlio illegittimo di Mussolini, fu ingiustamente internato al Mombello per non aver rinunciato alla parentela con il noto dittatore. I documenti hanno rivelato che era stato indotto in coma con dosi multiple di insulina, un ormone comunemente usato per trattare la schizofrenia. Benito Albino morì nel 1942 sette anni dopo essere entrato a far parte del Mombello.
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, iniziata la decadenza del Mombello, l’amministrazione milanese aveva deciso di favorire economicamente l’Istituto Affori e nel 1945 spostò i sussidi che in precedenza erano destinati al Mombello alla clinica di Carlo Besta.
Il Mombello ospitò fino a 3.000 detenuti, essendo il manicomio più grande e con la più alta capacità mai esistito in Italia. Ha ricoverato addirittura più di 30.000 interni pertutta la sua attività, durata fino al 1983, anno in cui fu smantellato durante la guida di Alberto Madeddu e chiuso nello stesso anno per l’entrata in vigore della Legge 180.
CONTINUANO LE CONTROVERSIE DEL MOMBELLO
Dalla sua chiusura nel 1983, le polemiche che circondano il Mombello non hanno smesso di emergere. Già nel 1900 furono effettuati studi su alcuni resti post mortem. Nello specifico nei capelli dei crani ritrovati, le analisi tossicologiche rilevarono un’elevata concentrazione di sostanze barbituriche, come cocaina, nicotina e caffeina.
Le polemiche sui metodi e le terapie discutibili utilizzate nel manicomio di Mombello portarono la Commissione europea per i diritti umani a svolgere un’indagine nel 1979. Dopo aver completato le indagini e l’ispezione di registri, documenti, laboratori e altre strutture, la commissione concluse che nel manicomio di Mombello la maggior parte dei trattamenti che erano stati effettuati erano ” contrari alla dignità e ai diritti umani” , dichiarandoli illegittimi, ingiustificati ed abusivi.
Come è avvenuto anche negli altri manicomi italiani, tutto questo “progresso” era solo una facciata. Al Mombello erano stati ingiustamente ricoverati sia malati che persone “sane”. I loro diritti e le loro libertà erano stati negati e laloro dignità di esseri umani era stata ignorata . Gli interni erano stati trattati senza rispetto, utilizzando sistematicamente metodi umilianti e torture con l’obiettivo di essere manipolati e utilizzati nella sperimentazione clinica.
Nonostante tutte quelle “innovazioni” nelle strutture, nella gestione e anche nelle strutture ricreative. La realtà era diversa. Non erano nutriti adeguatamente e l’ igiene era scarsa, non c’era personale sufficiente o qualificato per garantire il minimo requisito di igiene. Gli interni erano sfruttati nel lavoro non retribuito. Il maltrattamento e l’abuso, sia fisico che psicologico, vennero chiamati rieducazione. E la tortura veniva praticata all’interno di quella sperimentazione clinica, nelle cosiddette terapie o trattamenti, come l’ inoculazione di germi patologici, iniezioni di droghe e sostanze, lobotomie, elettroshock, tortura con acqua e vapore, immobilizzazione, isolamento, sfregamentocon sostanze irritanti, ecc.
Le terapie utilizzate erano inadeguate, totalmente ingiustificate ed eclatanti. Sebbene all’epoca fossero riconosciuti come un progresso nella medicina e alcuni sfiorarono persino il Nobel. Non corrispondevano a un criterio etico che cercava il benessere della persona, ma al contrario causavano danno e sofferenza, ed erano chiaramente un’aberrazione, dicui si nutrivano solo per progredire nella loro ipocrita rivendicazione.
Nei laboratori di Mombello sono stati ritrovati corpi mutilati, i cui arti erano stati conservati in barattoli, nello specifico, 50 cervelli , varie teste intere, gambe, braccia, mani ed organi interni, oltre a 12 corpi interi.
CURIOSITÀ SUL MOMBELLO
Una di questi è che il famoso ospedale di Mombello fece una fugace apparizione di soli 4 secondi, nella scena finale del film 7 giorni, 7 ragazze, il cui protagonista è il peculiare Johnny Depp . Il film è stato presentato al Festival di Berlino nel 2017.
Nel 2015 quattro ragazzi persi nelle metropolitane, dovettero essere soccorsi dai vigili del fuoco.
IL “POLTERGEIST” DEL MANICOMIO DI VILLA SBERTOLI
I poltergeist del manicomio di Villa Sbertoli fanno rumore. Strane strimpellate al di fuori delle leggi fisiche che si suppone siano causate dalle entità che vi vagano, ma si sentono anche accordi di pianoforte e musica soprattutto in alcune notti estive in cui il caldo porta via il sonno.
Oggi Villa Sbertolli è una fattoria abbandonata immersa nella vegetazione che cerca invano di nascondere le testimonianze del suo passato burrascoso. È inevitabile non sentirsi tristi e repulsi nel vedere le macchine per l’ elettroshock ancora presenti in una stanza. E dei libri aperti, cartelle cliniche sporche, strappate e sparse sul pavimento. Utensili medici, barattoli e quegli orribili letti con le sbarre di ferro.
Si racconta che poco dopo che la famiglia Sbertoli si trasferì nella residenza acquistata, il loro giovane figlio incominciò a mostrare segni di disturbi mentali. Fu allora che decise di aprire nella propria residenza una “casa di cura per i malati di mente” . Pensava che con le sue cure dirette e mantenendo suo figlio nello stesso ambiente familiare in cui era nato, la qualità della vita di suo figlio sarebbe stata più alta e forse avrebbe trovato una cura per la sua follia.
Ecco perché la villa presenta al suo interno un’architettura tipica di una residenza di lusso in contrasto con ambienti meno piacevoli e più inquietanti che mostrano l’altro lato oscuro del confinamento.
Con le sue conoscenze in psichiatria, Sbertoli cercò di trovare una cura per suo figlio, ma dopo diversi tentativi e terapie infruttuose il ragazzo morì. Fu allora che decise di ampliare il sanatorio.
Una residenza infestata viene considerata tale perché ciò che accade lì non entra nella nota normalità fisica. Rumori inspiegabili, odori strani, movimenti di oggetti e persino attriti fisici anomali.
Secondo la parapsicologia, questi eventi sono generati da entità o fantasmi dei morti. Ma possono anche essere causati da una telecinesi inconscia derivata dallo stress o dalla tensione emotiva che questi luoghi generano.
Dalla città di Pistoia sono visibili i ruderi della Villa Tanzi , detta anche la grande estensione del podere costruito. Una città vera e propria che per molto tempo è stata un manicomio. Adesso frequentato nella sua desolazione dai “fantasmi” dei suoi ex occupanti, che svolazzano vaporosi per i corridoi da una cella all’altra. Un lungo viale di cipressi invita l’accesso alle due tenute principali.
COME ERA VIVERE ALL’INTERNO DEL MANICOMIO SBERTOLI
La struttura originaria era composta da due grandi edifici principali costruiti nel XVII secolo . La porta d’ ingresso principale conduceva ad una piccola strada chiamata Via Solitaria . Il suo nome già prefigurava dove avrebbe portato.
Nel 1868 fu acquistata da Agostino Sbertoli, prestigioso psichiatra, inizialmente come residenza di famiglia, successivamente nel 1876 Sbertoli volle gestire la propria “Casa di Cura” (aveva lavorato come psichiatra in altri manicomi italiani), e la trasformò in un centro di salute mentale privato per famiglie benestanti . Da lì prese l’antico nome “casa di cura” come si dice, e successivamente Villa Sbertoli.
Il suo primo paziente fu un giovane di 29 anni, ricoverato il 18 marzo 1868, originario di Firenze ed affetto da epilessia. Solo un anno dopo, nel 1880, si unirono molti altri pazienti da tutta l’Europa. Erano parenti di famiglie benestanti attratte dalla notorietà che il sanatorio stava acquisendo. Dopo la morte di Sbertoli nel 1898, il figlio Nino Sbertoli, anche lui psichiatra, continuò la grande espansione iniziata dal padre, espansione che richiese più di 25 strutture.
I pazienti furono assegnati ad un reparto in base alla loro condizione sociale, tipo di comportamento (agitato, calmo, sporco e laborioso) e malattia.
Come in altri manicomi italiani, oltre a quelle usuali con stupefacenti e bagni, venivano applicate varie terapie “alternative” , anche meno simpatiche, come l’uso dell’elettricità (elettroshock), l’idroterapia con ghiaccio sulla testa, le sanguisughe e i temibili vescicanti sulla testa e nell’ano. Tortura in piena regola che causò indicibili sofferenze.
Quest’ultimo consisteva nell’utilizzo di composti chimici sulla pelle che provocavano gravi ustioni chimiche e vesciche, molto dolorose. Furono anche utilizzati per sperimentare la loro “interessante” capacità di aumentare la sensibilità della pelle e degli occhi (fotosensibilità). Questi composti, infatti, furono utilizzati nelle guerre come armi chimiche, poiché provocano gravi ustioni alla pelle ed agli occhi.
Durante la Seconda Guerra Mondiale (1943-1944) la città di Pistoia subì tre forti attacchi aerei, poi le autorità decisero di trasferire i prigionieri dal carcere di Pistoia a Villa Sbertolli.
Pochi mesi più tardi, nel 1944 un gruppo di partigiani, attaccò gli edifici e rilasciò a 54 uomini e 3 donne, di cui 3 erano ebrei.
Nel 1951 la struttura fu rilasciata per uso pubblico ed è rimasta aperta fino alla sua definitiva chiusura nel 1978.
LA MISTERIOSA SUORA DELL’OSPEDALE PSICHIATRICO DI VOLTERRA
Dicono che l’immaginazione possa farti dei brutti scherzi. Forse è quello che succede nel manicomio di Volterra. O forse no.
Secondo la scienza alcune onde sonore di frequenza particolarmente basse possono provocare nel vitreo dell’occhio la sensazione di attività nell’ambiente circostante. L’immagine della suora potrebbe rispondere a questo fenomeno. Ovviamente, non tutte le persone sono suscettibili nel captare queste bassa frequenze. Ma potrebbe dare una spiegazione alle visioni che alcune persone dicono di aver visto.
VOLTERRA: UN CARCERE A PORTE APERTE
Oltre ad essere nota per essere “la terra dei vampiri”, Volterra è stato a lungo motivo di orrore non solo per i suoi scandali finanziari, ma per le sue strane morti. Si tratta del manicomio aperto nel 1887.
Si trova in una fattoria abbandonata nei pressi del Ponte a Elsa a Volterra, un comune della regione Toscana della provincia di Pisa, come altre zone del luogo ha un passato etrusco che risale all’età del ferro.
Poiché altri in Italia erano stati in precedenza un ospizio per i mendicanti più poveri della comunità, la sua costruzione fu il più grande evento fino alla fine del XIX secolo, fu persino riconosciuto il 5 giugno 1884 come “ente morale” , e che avrebbe portato molto lavoro e beneficio economico alla comunità di Volterra.
Nel 1887, come si dice, aprì i battenti ai primi 30 reclusi, che furono subito mandati a 500 dall’Ospedale San Niccolò di Siena, che già era saturo come tanti altri a quel tempo e aveva aumentato la rata giornaliera a 1,50 lire proprio per diminuire l’afflusso di malati lì.
Iniziò una competizione sui prezzi . Secondo Volterra, il prezzo che chiedevano ai comuni incaricati di pagare il costo dei loro pazienti (perché l’assistenza era pubblica) era eccessivo. Dopo diversi tentativi, raggiunsero una convenzione più conveniente di cui beneficiavano sia gli enti pubblici che Volterra perché in questo modo vi avrebbero mandato più pazienti, per loro più conveniente, ed avrebbero attratto anche pazienti “privati” che pagavano per conto proprio. E quindi accettarono la quota giornaliera di 1 lira. Così la Congregazione della Carità di Volterra accettò la commissione e creò una sezione per i pazzi nel vecchio sanatorio.
Un anno dopo spostarono gli anziani per fare spazio ai pazzi che stavano aumentando di numero. Nel 1890 dovettero affittare unavicina fattoria a Papignano per accogliere tutti. Nel 1897 il “manicomio” venne aperto ufficialmente.
Durante la guida di Luigi Scabia avviene un cambiamento significativo, un periodo eccessivamente produttivo e prospero che sollevò dubbi sulla sua gestione. Cominciò nel 1902 con l’arrivo su un treno speciale di un “carico” di nuovi reclusi. Passando da 282 pazienti nel 1900 a 4.794 detenuti nel 1939.
Furono costruiti nuovi padiglioni e strade interne dove camminare, sempre con l’idea di creare un borgo evitando la simmetria degli edifici. I padiglioni furono nominati con illustri studiosi dell’epoca, come il Ferri , di cui parleremo più avanti.
Come altri in Italia, fu realizzato un acquedotto, migliorata l’ illuminazione e persino un generatore di gas benzina. L ‘ “ergoterapia” di cui abbiamo parlato prima, la terapia del lavoro , era la base su cui si sosteneva la prosperità del manicomio e la possibilità di far pagare un prezzo inferiore per l’assistenza.
Ma l’idea che appariva era quella di una città autonoma in cui il paziente non doveva sentirsi rinchiuso. Infatti non c’erano muri , anche se le porte e le finestre con le sbarre venivano chiuse ogni notte e c’era uno stretto controllo delle partenze e degli arrivi.
Gli interni lavoravano all’interno di varie dimore secondo le loro capacità, non solo lavori manuali come l’agricoltura e la fabbricazione di scarpe e vestiti, ma anche intellettuali , come la contabilità. Lavoravano distribuiti nelle diverse divisioni, falegnameria, confezionamento abbigliamento, panetteria, macello, lavanderia, fabbricazione di utensili in ferro e cristalli, disponevano addirittura di un forno speciale per la lavorazione dei mattoni, che utilizzavano per vari usi ed esigenze costruttive. Due aziende agricole-zootecniche gestite da due famiglie esterne all’istituto, rifornivano il sanatorio di prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento, dove i reclusi fornivano manodopera gratuita ed il centro riceveva anche compensi per ortaggi e frutta, oche e conigli.
Nel 1933 fecero fabbricare a Firenze 70.988 monete proprie con le quali “ripagare” il lavoro svolto, con cui i malati potevano acquistare cose all’interno dell’economatodel manicomio, che faceva parte della terapia di “autofinanziamento”.
Aveva un proprio servizio postale dove i malati potevano inviare lettere ai loro parenti o amici. La ricreazioneveniva vistaanche come terapia e diventata poi molto popolare con il ” Carnevale dei folli” dove i reclusi con abilità di recitazione e danza intrattenevano il pubblico (ingresso prepagato, come facevano in altri manicomi europei che si facevano pagare un centesimo per guardare attraverso le celle dei pazzi e si divertivano vedendo le loro “stupidaggini”), il personale medico e il resto degli interni.
Dopo alcuni anni, la prosperità economica era palpabile. Venne quindi messo in discussione e sorsero dubbi ed ambiguità sulla gestione esercitata da Scabia. Era evidente che la cosiddetta “terapia del lavoro”, da lui tanto promossa, che fin dall’inizio era stata istituita per compensare la bassa retta giornaliera, inferiore al resto dei manicomi in Italia, aveva contribuito a ridurre le spese e ad aumentare reddito, che ovviamente non erano destinati ad una migliore qualità della vita degli interni, ma al direttore ed ai “sani” collaboratori esterni che vi lavoravano come personale sanitario, molti della stessa città di Volterra e dintorni.
Una procedura che molti hanno identificato come “abuso e uso sistematico del lavoro gratuito “. L’ eccessiva “imprenditorialità” e la mancanza di scrupoli di Scabia fu ampiamente criticata. I reclusi lavoravano gratuitamente, quindi non solo era ingiusto ed offensivo, ma anche immorale data la loro vulnerabilità.
Tutta la facciata che il paziente non era costretto lì perché non c’erano muri e che a pochi privilegiati a volte era permesso di andare al cinema o al bar del paese, o per insegnare ai bambini di famiglie contadine a leggere o scrivere per favorire il reinserimento sociale era una bufala e un altro stratagemma per tenere i detenuti psicologicamente sottomessi .
Infatti, lo stesso Scabia ha riconosciuto che la terapia del lavoro “funzionava solo all’interno del manicomio, e non all’esterno”. Perché la società ” evidenzierebbe sempre la condizione di essere ” pazzi “ e l’efficacia della terapia verrebbe annullata”.
I reclusi venivano pagati con una moneta propria che non era valida fuori , e quando avevano bisogno di soldi in lire per pagare un acquisto o il cinema in paese, qualcosa che eccezionalmente accadeva era solo sotto la custodia dei “guardiani” e come una ricompensa per qualche favore “speciale” che lascia alla libera interpretazione.
Quindi quei casi eccezionali di reinserimento sociale quando qualcuno andava al cinema o per insegnare a leggere, erano solo un’attività fatta apposta per apparire, controllata dalla direzione del manicomio e non una vera opportunità di reinserimento nella società.
Fu criticato il sistema di custodia “no restrainct” promosso dal direttore. La realtà era diversa, era un sistema tanto rigido quanto aggressivo, pur non avendo muri. La violenza fisica e psicologica applicata agli internati ne annullava la volontà, l’autostima, l’identità e l’autonomia, diventando offensiva, ingiusta e moralmente inaccettabile.
La struttura gerarchica piramidale su cui si basava la gestione del personale sanitario del manicomio (cioè ognuno rispondeva solo alle persone da cui dipendeva direttamente), rafforzava un regime poliziesco tipico delle carceri, il cui primario aveva il controllo di tutto.
Il Volterra era in realtà un carcere a porte aperte, che esercitava il suo isolamento non solo nelle strutture ma nelle menti delle persone che erano lì come pazienti. È emerso che i compiti degli infermieri non erano legati all’assistenza sanitaria dei malati, ma che erano meri “ tutori e superiori ”, come dovevano chiamarli gli internati, che usavano anche abusi, immobilizzazioni con cinghie e camicie di forza, isolamento, farmaci, droghe ed altre terapie di dubbia efficacia clinica.
I reclusi venivano strumentalizzati e utilizzati, in realtà erano fisicamente e psicologicamente costretti ad eseguire gli ordini impartiti.
Anche l’ ufficio postale era fittizio , dal 1978 le lettere che gli internati inviavano in attesa di essere ricevute e lette dai destinatari, non erano mai state spedite per posta, ma erano state inserite come una pagina in più nelle schede mediche di ogni paziente.
Accanto al Ferri, c’era il dipartimento dedito ai casi di tubercolosi, il Maragliano, dove nel 1948 aprì una sezione anche per minori, dove furono ammessi 500 bambini per ” rieducarli”. Secondo le testimonianze, le urla e le grida infinite e struggenti dei giovani residenti erano quotidiane.
Le mini vasche trovate all’interno della struttura testimoniano la presenza dei piccoli ed innocenti ospiti che questo manicomio aveva, bambini abbandonati per un motivo o per l’altro, la maggior parte dei quali sicuramente non aveva nessun tipo di malattia mentale ed erano destinati a vivere in isolamento, senza affetto, cura o protezione.
Poi arrivò il suo declino e la sua chiusura definitiva.
CURIOSITÀ SUL VOLTERRA
Alcuni reclusi del manicomio (inizialmente 6 e poi altri 6, pagati con una mancia ignobile) furono utilizzati nei primi scavi archeologici effettuati a Volterra dove successivamente scoprirono il Teatro Romano così visitato oggi dai turisti.
Il primo contatto significativo che i detenuti del manicomio di Volterra ebbero con la realtà avvenne durante un’iniziativa promossa dal Comune nel 1973, appunto denominata “Volterra ’73” .
Si trattò di una manifestazione artistica svolta all’interno del manicomio a cui parteciparono alcuni artisti italiani e stranieri. L’iniziativa attrasse architetti, scultori e pittori che trasformarono il manicomio almeno per il breve periodo in cui l’iniziativa durò in un laboratorio d’arte. Tuttavia, questo tentativo di reinserimento sociale non fu ben accolto dal direttore dell’istituto mentale che, riluttante a cambiare, ruppe le connessioni per futuri progetti una volta terminato.
NOF
NOF, sono le iniziali con cui firmava Nannetti Oreste Fernando, un recluso del manicomio giunto a Volterra nel 1958 . Era stato trasferito dall’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma al reparto Ferri, detto anche “giudiziario”, dopo un oltraggio contro il pubblico ufficiale e non perché “pazzo”. Cominciò la sua disgrazia che sarebbe terminata solo con l’entrata in vigore della Legge 180.
Il “lavoro artistico” di NOF o “arte marginale” come chiamavano le creazioni degli artisti internati, era stampato sulle pareti esterne di quel padiglione, lungo 180 metri. Oggi è un’opera di “art-brut” riconosciuta anche a livello internazionale e che costituisce il patrimonio artistico di Volterra.
Il suo “capolavoro” consiste in una serie di annotazioni e scritte dove registrò le strane morti che secondo lui erano avvenute all’interno del manicomio.
Ora questi scritti si stanno deteriorando e svanendo. Quando erano ancora intatti, il Museo dell’Art-Brut di Losanna lo decodificò e ne fece una copia. Oggi sul muro del Ferri c’è solo una parte visibile della sua “opera”.
I FENOMENI PARANORMALI DEL MANICOMIO DI AGUSCELLO A FERRARA
A Ferrara, in provincia di Bologna, c’è qualcosa di speciale per i più curiosi che sono interessati a qualcosa di diverso dai già tanti monumenti storici. Si trova ad Aguscello, cittadina più nota per i suoi misteri e leggende che per qualsiasi altra realtà, ed è per questo che attrae visitatori speciali, il turismo dell’occulto . Ed ecco una delle case più infestate d’Italia , il manicomio di Aguscello.
È forse uno dei manicomi italiani con più segreti e misteri che esista. Esistono due versioni degli eventi che sono legate ad un unico fatto realmente accaduto e documentato, quello di un incendio doloso, che costituiscono la base delle storie terrificanti che si raccontano sulle vicissitudini che hanno avuto gli occupanti di questa abitazione privata. Storie che fanno rizzare i capelli anche ai più scettici.
Secondo quanto si dice, si trattava di una strage compiuta presumibilmente dal piccolo Filippo Erni, appena 12 anni ed affetto da schizofrenia , e del suo successivo suicidio per defenestrazione . La sua stanza oggi mostra un aspetto desolato e un ricordo terribile di quell’accesso di “follia” incontrollata.
Infatti le sfere in alcune fotografie e immagini video mostrano quella che sembra essere la figura di un ragazzo biondo con i capelli disordinati e di circa 10 o 12 anni. Non si sa se siano frutto di una bufala o addirittura mostrino l’ immagine spettrale del vero Filippo Erni.
Ci sono diverse versioni di quanto presumibilmente accaduto, non è nemmeno certo se il piccolo Filippo sia realmente esistito, dal momento che il suo nome non è stato trovato in nessun documento ufficiale . Ma è anche possibile che la sua esistenza si sia voluta nasconderea proposito, proprio per la gravità dell’evento e per lo scandalo che ha provocato.
Anche se ciò che Filippo presumibilmente fece fu terribile, ancora più inquietante è stato ciò che fecero le suore che si prendevano cura dei bambini.
La leggenda che Filippo fosse stanco delle imposizioni rigide, dei maltrattamenti e degli abusi che le suore applicavano a lui e agli altri bambini del collegio. Quella notte era particolarmente offeso e arrabbiato , era stato umiliato pubblicamente e nessuno dei suoi compagni aveva fatto nulla per difenderlo. Di notte, mentre gli altri dormivano, qualcuno gli parlava nella sua testa. In un impeto di “follia” si alzò e si gettò sul ragazzo che dormiva nel letto accanto. Le urla sbalordite degli altri bambini allertarono la suora di guardia che dormiva in una stanza vicina. Quando arrivò, Filippo stava picchiando ripetutamente la faccia insanguinata dell’altro ragazzo con i pugni uniti. I corpi senza vita di altri bambini erano sparsi per la stanza. Filippo li aveva uccisi . Le suore rinchiusero Filippo in una delle celle di isolamento al piano più alto del manicomio, dove separarono i reclusi più pericolosi ed aggressivi.
Si narra che il bambino, invaso da un senso di disperazione e sopraffazione, corse a piedi nudi urlando per la stanza da una parte all’altra, in una di queste si gettò verso la finestra e rompendo fragorosamente il vetro si precipitò nel vuoto. La caduta portò inevitabilmente alla morte di Filippo. Si dice che dopo questo evento le suore abbiano deciso di chiudere illoro servizio in quel manicomio e messo a punto una strategia per mettere a tacere tutte le possibili testimonianze che erano state testimoni della tragedia. Non volevano essere criticate per le cure e le regole che impartivano ai bambini, così decisero di chiudere a chiave tutti i detenuti al piano di sopra e di dare fuoco all’edificio con tutti all’interno.
Un’altra versione racconta che ci fu una grave epidemia virale che portò alla morte di alcuni bambini ricoverati. Le suore, timorose che l’epidemia potesse infettare anche il loro personale medico, rinchiusero per qualche tempo tutti gli internati infetti, ed anche chi non lo era, al piano di sopra, lasciandoli a morire senza assistenza né di cibo né di acqua. Poi decisero di dargli fuoco per eliminare il possibile contagio dell’epidemia. Successivamente seppellirono i resti in una fossa comune per rimuovere le prove e lasciarono il manicomio senza spiegazioni.
Dicono che i poltergeist siano aggressivi qui . I colpi sono forti e violenti, forse come i suoi occupanti. Ma quello che spaventa di più sono le visioni diquei bambini dai volti sfigurati checorrono disperati per i corridoi immersi nelle fiamme, che alcuni dicono di aver visto tra le rovine.
Ci sono diverse spiegazioni scientifiche per questi fenomeni paranormali. La visione di oggetti inanimati in movimento potrebbe rispondere ad un effetto ottico che si manifesta nell’umore vitreo dell’occhio di alcune persone suscettibili a frequenze d’onda molto basse.
L’ ipotesi che sia possibile una connessione tra varie dimensioni parallele o che alcune forze elettromagnetiche o gravitazionali possano muovere gli oggetti sono anche altre ipotesi legate allo studio.
Ma c’è sempre la questione del “soprannaturale” . Qualcosa che sfugge alla nostra logica ma che in qualche modo persiste in noi per qualche motivo. Forse perché ci sentiamo in colpa per la natura orribile di alcuni esseri umani. Forse è per questo che cerchiamo di fare “giustizia” nel ricordare e non lasciando le coscienze ignobili di coloro che erano in grado di realizzare quelle atrocità.
SOPRAVVIVERE NEL MANICOMIO DI AGUSCELLO
Una casa nata come residenza privata, successivamente adibita a ospedale per malati di tubercolosi, e successivamente trasformata in luogo degli orrori.
Nell’archivio ufficiale del 1870 del Comitato provinciale di Ferrara si trovano i documenti che ne testimoniano il passato storico, quando fu acquistato l’appezzamento di terreno in un pennone pubblico e l’edificio costruito dopo diversi proprietari nel 1940, grazie al Dott. Giovanni Bernardi e sua moglie Amelia Guerra, è stato trasformato in un ospedale per malati di tubercolosi.
Fu venduto alla Croce Rossa italiana e divenne un ospedale psichiatrico per bambini sotto i 13 anni.
Molte sono le incertezze durante questo periodo di gestione, soprattutto a causa del suo abbandono improvvisato nel 1970. Le voci locali raccolgono molti eventi macabri accaduti all’interno di quelle mura, ma ci sono anche fonti ufficiali, documentazione scritta appartenente alla struttura come le cartelle cliniche che sono conservati nell’archivio di Ferrara.
Le voci raccontano eventi agghiaccianti e orribili accaduti nei 30 anni di attività del manicomio. Ma non sono solo voci, ci sono testimonianze vissute in quegli anni, che hanno narrato torture fisiche e mentali gravissime. E hanno persino usato i bambini per usarli come oggetti per la sperimentazione.
Per anni c’è stata una chiara volontà da parte delle autorità di nascondere questi eventi, di eliminare le tracce che ci hanno permesso di ricostruire il modo di lavorare dei medici e del personale sanitario ed educativo che si prendeva cura di questi bambini.
IL MANICOMIO SAN NICCOLÒ
Ora è il Palazzo San Niccolò, un edificio storico di Siena situato vicino a Porta Romana, ma prima era un monastero e nel 1762 divenne la “Casa dei Matti”, così chiamata per quasi cento anni (1818-1999) poi cambiando nome, definendosi come Ospedale Psichiatrico.
Il padiglione Conolly all’interno della struttura è quello che più attira l’attenzione, è un panopticon . È uno dei due esempi che esistono in Italia. L’altro è nel carcere di San Stefano nell’isola di Ventotene.
L’involucro in forma di un panottic o panopticon consente una sola guardia per visualizzare tutti i soggetti che si trovano nella parte inferiore, senza che li avvertisse di essere osservati. La parola panottico deriva da Argo Panoptes della mitologia greca , un gigante con 100 occhi considerato un ottimo guardiano . L’idea consente un “potere invisibile”, una metafora che ha ispirato molti pensatori, scrittori e filosofi.
Nel mondo ce ne sono altri, sempre carceri, in Colombia nel carcere di Ibaguè, nel carcere di Birmingham nel Regno Unito, nell’isola della Gioventù a Cuba, dove fu imprigionato Fidel Castro, che era anche ospedale psichiatrico e oggi museo. Originariamente destinato all’isolamento dei malati più gravi.
Il Conolly di Siena divenne nel ‘900 parte della Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Siena. Oggi la maggior parte sono rovine silenziose dove giace solo il ricordo delle migliaia di vite sfortunate e dimenticate che vissero tra quelle mura.
Anche in quei giorni l’atmosfera di segregazione e abbandono era disperatamente opprimente e angosciante come lo è ora. Era difficile essere felici, a meno che tu non fossi come Maria . Aveva un sorriso insolito sulle labbra ed era sempre pronta a raccontare con entusiasmo le tante storie interessanti della sua vita.
A Maria era stata diagnosticata una particolare patologia, una mania di grandezza . La sua grande immaginazione faceva entrare rapidamente chiunque l’ascoltasse nel suo universo particolare dove grandi personalità ed eventi immergevano gli ascoltatori in un profondo silenzio di curiosità ed aspettativa.
La personalità di Maria nascondeva grandi segreti e note nascoste capaci di accendere la curiosità anche dello psichiatra del manicomio, che annotava attentamente ogni particolare delle sue “esperienze immaginarie” nella sua cartella clinica, ora conservata negli archivi.
Quando Maria entrò nel manicomio nel 1889, non era l’unica paziente che aveva “arie di grandezza”, un altro paziente con paralisi “bracesi” (come si chiamava la demenza) aveva firmato nella sua cartella clinica come: “Edmondo Napoleone Bonaparte Weys di Savoia Cargnam Imperatore e Messia. ” Sembrava che non del tutto soddisfatto della sua genealogia già principesca e napoleonica, fosse anche il Messia.
L’illusione di grandezza di Maria era un esempio diverso, poiché era stata diagnosticata come una “monomania intellettuale” , ossessionata da un’unica idea. Disordine oggi così diffuso tra la popolazione “sana” ma spesso non diagnosticata.
Maria Sandroni, che era il suo vero nome arrivò al San Niccolò nel 13 aprile del 1889, con 31 anni . Era stata di professione cameriera e una condizione di origine “povera” . Originariamente aveva vissuto a Cecina ma aveva viaggiato per mezza Italia per lavoro. L’anamnesi è molto ricca di dettagli, suo padre era “nervoso e arrabbiato”, sua madre era “malinconica”, ed una zia che soffriva di convulsioni.
Quando compì 17 anni fu mandata dal fratello che viveva a Firenze. Ma questo la mandò a lavorare all’estero, a servire nelle case di famiglie lontane da lui, sottraendosi così al dovere di sostenerla.
A causa di una “passione d’amore” che probabilmente la distraeva dal suo lavoro, la padrona di casa la licenziò. Trovò altri lavori a Roma, a Bibbona e poi a Cecina, ma finivano sempre per licenziarla . Non è mai riuscita a mantenere un lavoro, perché secondo il dottore “la sua testa si dilettava in pensieri di amore più o meno immaginari che la distraevano dal suo lavoro”.
Quando arrivò al manicomio di Siena, la sua patologia era in un momento particolare e florido. Le storie che raccontava erano strutturate con una quantità incredibile di dettagli culturali e la situazione politica di quel tempo che sorprese anche il medico, data la sua origine poco istruita.
Nel suo primo colloquio, Maria disse al medico psichiatrico che “era stata proclamata Santa e che per questo motivo il suo corpo purissimo non poteva essere posseduto da meno di un re o principe di sangue reale”.
In quel periodo, inoltre, “era in corso un ardente amore con il Principe di Napoli “, che era il titolo con cui si identificava allora l’ erede al trono di Casa Savoia . Nel 1889 il Re d’Italia era Umberto I e l’erede che gli sarebbe poi succeduto nel 1900 era Vittorio Emanuele, appunto il Principe di Napoli di Maria.
Secondo lei il re Umberto non era contrario a questo rapporto e non aveva proibito un futuro matrimonio, così Vittorio Emanuele, principe di Napoli e futuro re, scambiò ilsuo amore per Maria.
Come previsto, gli ostacoli secondo Maria venivano da papa Leone XIII , che cercava un’alleanza con la Francia per ristabilire il regno pontificio. Per fare questo, si offrì segretamente difar sposare il principe Vittorio a una principessa francese, e non a Maria. Per questo, secondo Maria, papa Leone XIII la odiava e, incapace di toglierle la santità di cui era dotata, l’aveva rinchiusa in manicomio dicendo che era pazza.
Secondo lei, il principe l’ha sempre amata e l’amava ancora. Disse che dopo diversi giorni di internamento a Pisa, il principe le andò addirittura a trovare in manicomio con sua maestà il re Umberto, il padre, e la fece alzare dal letto e loro tre parlarono gentilmente per un po’ “.
Davanti a queste fantastiche storie d’amore nella loro prima conversazione, il medico non poteva fare altro che ascoltare e non cercare di interferire, poiché qualsiasi tentativo di cementare la realtà nel paziente poteva essere dannoso.
Il medico al suo secondo e terzo incontro, inizia ad aggiornarla sulfatto che si trova all’interno del centro. Maria sembrava retrocedere nella realtà, ma questo durava solo un attimo. Si fermava di colpo e tornava rapidamente nel suo mondo.
“In realtà, lei affermava che avrebbe accettato di sposare un certo Bibbona, di origine più modesta, o anche un certo Bencini, entrambi pretendenti che la avevano corteggiata. ” Poi cambiava tono e spiegava come il suo attuale ruolo privilegiato nella politica europea gli abbia permesso di impedire la guerra tra Francia e Italia. “
Durante l’internamento, Maria si mostrava come una persona modesta, calma e persino umile. Non creava particolari problemi di gestione, le sue “arie di grandezza” si attivavano solo quando qualcuno la incoraggiava a parlare. Quindi entrava di nuovo nel suo mondo immaginario e iniziava una logorrea senza fine che non accettava di essere interrotta per un momento.
Il conflitto interno di Maria è simile a quello che Freud descriverebbe solo dopo pochi anni, come “romanticismo familiare”.
I pazienti affetti da questa sindrome creano una vita parallela alla propria “storia d’amore”, conseguenza di non aver trovato nella vita reale, nemmeno in famiglia (genitori e fratello), chi l’amasse ed apprezzasse così com’era. La mancanza di affetto aveva formato un vuoto così grande che solo l’ immaginazione poteva colmare. La sua mente aveva bisogno di creare una via di fuga, scartando così la via della depressione, e sperimentando un metodo più complicato, quello della fantasia.
E se pronti ad immaginare, perché stabilire dei limiti ? Maria doveva aver pensato. Meglio farlo in grande. Essere Santa e mettersi al centro della politica europea di quel tempo ed aspirare al miglior “pretendente” d’Italia, il principe ereditario.
È carino vedere il tentativo di Maria di salvarsi attraverso la fantasia.
Per i successivi 10 anni, il sogno di Maria si acquieta e perde quel dono di inventiva che tanto affascinava i suoi ascoltatori. Nessuno la sente più parlare, nessuno le chiede niente, e poi la storia di Maria sfuma inesorabilmente nel profondo dell’anonimato di quel manicomio.
Siamo nel 1898 , nell’ultima voce della sua cartella clinica menziona che Maria sarebbe stata trasferita all’ospizio di Volterra (già citato in questo articolo), proprio quando tra i due manicomi c’era una competizione sui prezzi.
Il manicomio senese aveva alzato i prezzi della sua quota giornaliera a 1,50 lire, e Volterra, che cominciava a lanciarsi nel mercato delle cure, insisteva per non aumentare di 1 lira. Tanti pazienti che erano a Siena, furono trasferiti a Volterra dove il governo delle province incaricato di sostenere le spese delle cure spendeva meno.
Non si sa se Maria sia guarita ed abbia smesso di dire “bugie”. Perché sembra che fosse questo il motivo della sua malattia. Ma chi non ha mai detto una piccola bugia? Forse per Maria è iniziata così, a poco a poco, per un bisogno psicologico, di affetto, che le era stato negato. E si è distratta in quel gioco tanto eccitante quanto dipendente. Artifici e bugie l’hanno trasportata in un mondo irreale, ma quelle emozioni erano le uniche che la facevano sentire amata e voluta dal mondo.
In quel manicomio c’erano le storie di Maria, le storie della sua santità, delle sue importanti amicizie reali e dei segreti d’amore. Oggi li ricordiamo per testimoniare che dietro ogni internato ammalato o meno c’era sempre stata una persona . Con sentimenti, affetti ed emozioni come chiunque altro, che voleva solo essere trattati umanamente.
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